lunedì 17 febbraio 2020

Lutero e la giustificazione per sola fede

Il problema della salvezza
Cosa bisogna fare per meritare la felicità?
Può l’uomo fare un atto di puro bene, di gratuità?
Come fare per essere giusti, buoni, meritevoli della salvezza?

Un problema antico
1. Ovidio, Met. VII 20-21 - “Video meliora proboque, deteriora sequor" (Vedo il meglio e l’approvo, seguo il peggio)
2. Rom. 7, 18-19 - "Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
3. Petrarca, Ascesa al monte Ventoso - "«Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio». Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia». Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi
possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e
contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia
ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me»
4. Ibsen. Brand - "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte m'inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?"

Cosa dice la nostra esperienza?
Può l’uomo fare un atto di puro bene, di gratuità?

Alcune riposte date dall'uomo nel corso della storia
No, perché l'uomo è intrinsecamente malvagio. Occorrono delle leggi per costringerlo a non fare il male e fare il bene.
Sì, perché l'uomo è naturalmente buono. Occorre liberarlo da ogni legge e costrizione umana e farà il bene.
L'uomo ha in sé una spinta al bene e una al male, per questo è necessario che vinca in lui lo sforzo morale per il bene.
L'uomo ha in sé una spinta al bene e una al male, ma solo una adeguata conoscenza lo porta a capire come fare il bene.

La risposta dei poeti
"ch'abbassa orgoglio a cui dona salute... (Io voglio del ver la mia donna laudare, v. 10)
null'o po' mal pensar fin che la vede " (v. 14)

La spiegazione e la riposta della tradizione cristiana
1. Gen. 3,17-19 -All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».
2. Mc. 10,17-21 - "Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
3. Gv, 15, 5 -  "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla"
4. Rom.1,16-17 - "Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede."

La risposta di Lutero
Come deve fare l'uomo per essere giusto davanti a Dio ed essere salvato?
L'uomo deve credere in Dio e abbeverarsi alla Bibbia. Non è lui che si salva per i suoi meriti, ma è la grazia di Gesù a cui si deve affidare totalmente.
Come posso però io conoscere Gesù? Attraverso la lettura e la meditazione della Scrittura.

martedì 28 gennaio 2020

Tre forme metriche: canzone, sonetto, ballata

Tre forme storiche
Tre forme metriche fondamentali accompagnano la storia della poesia italiana a partire dal Duecento e poi nell’intero arco della sua evoluzione: il sonetto, la canzone, la ballata. Tutte e tre sono forme strofiche, vale a dire forme metriche che presentano i versi raggruppati in “contenitori” detti strofe o stanze e non sciolti. I vari tipi di strofe sono determinati dal numero e dalla qualità dei versi di cui sono composte nonché dal modo in cui i versi vi risultano intrecciati. Esaminiamo una dopo l’altra queste tre forme metriche. (Esercitazione) (Rime di Dante)

La canzone
É la forma più illustre della nostra lirica. Come ancora indica il nome, in origine essa era destinata al canto e alla musica.
La canzone è strutturata in strofe (“coblas” in provenzale, mentre Dante nel “De vulgari eloquentia” le chiama stanze), normalmente da cinque a sette. I versi utilizzati sono di due soli tipi, endecasillabi e settenari.
Le strofe o stanze sono tutte uguali tra loro, cioè di uguale numero e disposizione interna di versi e con una successione costante del medesimo schema di rime. Ciò significa che, una volta che si è compresa la struttura della prima stanza, si sono comprese tutte le altre: le rime varieranno, ma resterà costante lo schema di disposizione (alternanza di endecasillabi e settenari, sequenza delle rime ecc.). Fa eccezione una strofa finale diversa dalle altre perché più breve, non sempre presente, detta congedo o anche invio (tornada in provenzale).

Fronte, sirma e congedo
Le stanze di canzone sono divisibili al loro interno, cioè sono articolate in due elementi: la “fronte” e la “sirma” (o “sirima” o anche “coda”). La fronte è di solito anch’essa divisa in due membri di analoga struttura, i “piedi”, la cui estensione varia da tre a sei versi in Dante oppure da due a quattro versi nel Canzoniere petrarchesco. Lo schema delle rime dei piedi cambia da canzone a canzone: l’importante è che, alla fine del secondo piede, nessun verso sia rimasto irrelato, cioè privo di rima.
Anche la sirma può essere divisa in parti simmetriche, dette “volte”: si parla allora di canzone in stanze di piedi e volte. Se, come in Dante e Petrarca, la sirma rimane indivisa (o indifferenziata), allora tecnicamente siamo di fronte alla canzone in stanze di piedi e sirma, che è la forma classica della canzone petrarchesca. Quando, dopo l’ultimo verso della fronte, viene intercalato un verso in rima con il primo della sirma si dice che fronte e sirma sono concatenate: il verso in questione è detto anche chiave. Da Petrarca in poi questo espediente diventerà una regola.
L’ultima stanza di una canzone è detta congedo: nei lirici provenzali il congedo corrispondeva sempre alla sirma di stanza, ma i poeti italiani ammettono maggiore libertà (perciò, per esempio, il congedo cambia il precedente schema delle rime).
A seconda delle rime, le stanze si distinguono (usando parole provenzali, il che testimonia del fatto che furono i trovatori a inventare queste tecniche) in:
• stanze unissonans, che utilizzano sempre le medesime rime (le rime ricorrono nelle medesime posizioni, strofa dopo strofa);
• stanze capcaudadas, in cui la prima rima di una strofa coincide con l’ultima della strofa precedente;
• stanze capfinidas, in cui il primo verso riprende una parola o un’espressione dall’ultimo verso della strofa precedente.

Un esempio di canzone da Dante
Ecco un esempio di canzone in stanze di piedi e sirma, con la sirma tutta in rime baciate dopo il verso-chiave: si tratta della canzone «petrosa» di Dante “Così nel mio parlar voglio esser aspro”. Leggiamo l’intera prima stanza, a schema ABbC ABbC CDdEE (il verso-chiave è “ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda” e ha rima C):

Così nel mio parlar voglio esser aspro
A
1° piede

com’è ne li atti questa bella petra,
B

la quale ognora impetra
b

maggior durezza e più natura cruda,
C




Fronte
e veste sua persona d’un diaspro
A
2° piede

tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
B

non esce di faretra
b

saetta che già mai la colga ignuda:
C





ed ella ancide, e non vai ch’om si chiuda
C
chiave

nè si dilunghi da’ colpi mortali,
D


ché, com’avesser ali,
d

Sirma
giungono altrui e spezzan ciascun’arme
E


sì ch’io non so da lei nè posso atarme.
E



Nell’esempio proposto, come si può vedere, dopo il verso-chiave (ed ella ancide … si chiuda), la sirma è una quartina di endecasillabi, con l’eccezione del secondo verso (ché, com’avesser ali) che è un settenario.

Un esempio di canzone da Petrarca
Ecco ora la prima stanza di una delle più ammirate canzoni petrarchesche, “Di pensier in pensier”. Qui la sirma presenta sei versi che non potrebbero essere divisi in volte, perché costituiti da rime differenti. Tuttavia gli studiosi la suddividono ugualmente e per questo motivo riportiamo questa consuetudine nella rappresentazione grafica dello schema delle rime:

Di pensier in pensier, di monte in monte
A
1° piede

mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
B

provo contrario a la tranquilla vita.
C




Fr.
Se ‘n solitaria piaggia, rivo o fonte,
A
2° piede

se ‘nfra duo poggi siede ombrosa valle,
B

ivi s’acqueta l’aima sbigottita;
C





et come Amor l’envita,
c
chiave





or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
D
1ª volta

e ‘l volto che lei segue ov’ella il mena,
E

si turba et rasserena,
e




Sir.
et in un esser picciol tempo dura;
D
2ª volta

onde a la vista huom di tal vita esperto
F

diria: «Questo arde, et di suo stato è incerto».
F


Proprio da Petrarca la canzone ricevette grande regolarità e uniformità di schemi. All’esempio delle canzoni petrarchesche si attennero i poeti delle età successive, anche se dal Settecento si ebbero diversi esperimenti che tendevano all’innovazione.
Ma il vero innovatore sarà Giacomo Leopardi (1798-1837), che all’inizio dell’Ottocento elaborerà un tipo di canzone libero da schemi prefissati: la cosiddetta “canzone a schema libero o canzone leopardiana”. In essa, nelle varie strofe, si mescolano versi rimati e non rimati, sia endecasillabi sia settenari.

Il sonetto
È la forma metrica più diffusa nella poesia italiana. Il termine «sonetto» deriva dal provenzale sonet (da “son”, “‘suono”): esso designa una melodia e, quindi, un testo poetico adatto a essere cantato.
Fu Giacomo da Lentini a derivare il sonetto da una stanza isolata di canzone (in provenzale, cobla esparsa). L’innovazione piacque e, dopo di lui, il termine «sonetto» prese a indicare quel particolare tipo di componimento (nato in Italia e caratteristico della nostra lirica) così costruito:
§ una successione di quattordici versi tutti endecasillabi rimati;
§ una suddivisione in quattro strofe, e cioè:
- due quartine legate in rima (i piedi, se consideriamo il sonetto una particolare stanza di canzone); i sonetti più antichi hanno rime alternate ABAB, poi si affermò lo schema a rime incrociate ABBA;    
- due terzine e volte), pure legate in rima, ma in svariatissime combinazioni, con schemi CDE CDE (rime replicate) e CDC DCD (rime invertite), o ancora CDE DEC; CDE EDC (rime rovesciate); CDE DCE. L’importante è non lasciare versi irrelati, cioè privi di rima.

Un sonetto di Cavalcanti
Ecco un esempio di sonetto «classico», composto da Guido Cavalcanti con schema di rime ABBA ABBA nelle quartine e CDE CDE nelle terzine:

esercizio: 1) evidenzia tu le rime
2) La rima delle due quartine è di tipo _________________

Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
A
1ª quartina
o tolti, sì che de la lor veduta
B
non fosse nella mente mia venuta
B
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti»?
A



Ch’una paura di novi tormenti
A
2ª quartina
m’aparve allor, sì crudel e aguta,
B
che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta,
B
che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti
A



Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
C
1ª terzina
a pianger sovra br pietosamente,
D
tanto che s’ode una profonda voce
E



la quale dice: — Chi gran pena sente
C
2ª terzina
guardi costui, e vederà ‘l su’ core
D
che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce —»
E

Un sonetto di Foscolo
Questo è uno dei sonetti maggiori di Ugo Foscolo (1778-1827), in cui nelle due quartine si assiste alla ripresa dello schema arcaico delle rime (titolo: ________________
schema: _________________________ )

Compito: sottolinea le rime, poi assegna le lettere; inserisci poi il nome delle strofe

Rima
strofa
Forse perché de la fatal quiete

tu sei l’immago a me sì cara vieni

o Sera! E quando ti corteggian liete
…..
le nubi estive e i zeffiri sereni,




e quando dal nevoso aere inquiete

tenebre e lunghe all’universo meni;
…..
sempre scendi invocata, e le secrete

vie del mio cor soavemente tieni.




Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme

che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
…..
questo reo tempo, e van con lui le torme




delle cure onde meco egli si strugge;

e mentre io guardo la tua pace, dorme
…..
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.


Per la sua brevità, adatta a raccogliere in pochi versi un pensiero o uno stato d’animo, e per la struttura semplice e insieme aperta a molte possibili variazioni, il sonetto ebbe lunga vita. Grazie soprattutto agli stilnovisti e a Petrarca, fu il vero dominatore della lirica d’amore, travasandosi dalla letteratura italiana alle principali letterature europee: scrissero sonetti, per esempio, i francesi Ronsard e Baudelaire, gli inglesi Shakespeare e Wordsworth, il tedesco Goethe, lo spagnolo Góngora.
Tuttavia, nel corso dell’Ottocento il sonetto decadde: Foscolo fu l’ultimo a utilizzarlo come genere lirico prediletto, mentre Manzoni e Leopardi preferirono altre forme liriche. Tornata in auge con Carducci e D’Annunzio, la forma del sonetto venne rinnovata nel Novecento da poeti come Saba, Caproni e Zanzotto.

La ballata
La ballata (o canzone a ballo) è una forma di origine popolare, nata, come dice il nome, quale genere accompagnato da musica e canto. Gli stilnovisti e Petrarca le attribuirono dignità d’arte, imponendole rigorose leggi ritmiche.

La struttura
La ballata è introdotta da una ripresa (o ritornello), intonata dal coro, che veniva replicata dopo ogni stanza. Alla ripresa seguivano una o più stanze intonate dal solista.
La maggior parte delle ballate antiche consisteva nella ripresa e in una sola stanza. Poi, però, prevalse una forma più elaborata, in cui ciascuna stanza veniva solitamente suddivisa in due parti:
§ due (al massimo tre) mutazioni di struttura identica, come avviene nei piedi di canzone;
§ a seguire una volta, che riproduce lo schema della ripresa; il verso finale della volta rima con l’ultimo della ripresa; frequentemente il primo verso della volta rima con l’ultimo verso della seconda mutazione.

Ballate grandi, mezzane, minori
I versi della ballata sono endecasillabi e settenari, variamente intrecciati.
A seconda poi della struttura della ripresa, si distinguono vari tipi di ballata:
§ la ballata grande, con ripresa di quattro versi;
§ la ballata mezzana o media, con ripresa di tre versi;
§ la ballata minore, con ripresa di due versi.
Ci sono poi la ballata piccola o minima, con ripresa di un solo verso, e la ballata stravagante, con ripresa di più di quattro versi.

Una ballata di Dante

Ecco qui un esempio di ballata mezzana dantesca, di cui riproduciamo la ripresa e la prima stanza.

Per una ghirlandetta
A

ripresa
ch’io vidi, mi farà
B

sospirare ogni fiore.
C





I’ vidi a voi, donna, portare
D
1ª mutazione
Stanza
ghirlandetta di fior gentile,
E
e sovr’a lei vidi volare
D
2ª mutazione
un angiolel d’amore umile;
E
e ‘n suo cantar sottile
E
volta
dicea: «Chi mi vedrà
B
lauderà ‘l mio signore».
C




Se io sarò là dove sia


2ª stanza
Fioretta mia bella a sentire,


allor dirò la donna mia




Breve storia della ballata

I poeti siciliani ignorarono la ballata. I primi a proporla furono Guittone d’Arezzo e Jacopone da Todi, nella poesia religiosa (ballata sacra o lauda), e Guido Cavalcanti nella lirica d’amore profano. La ballata fu tra i componimenti prediletti dai poeti del Quattrocento, come Lorenzo il Magnifico e Poliziano. In seguito fu piuttosto trascurata, soppiantata dal madrigale come genere cantabile. A fine Ottocento, Giovanni Pascoli riprenderà spesso nella propria raccolta “Myricae” la forma della ballata piccola o minima, con qualche variazione rispetto allo schema canonico.

Lutero e la giustificazione per sola fede

Il problema della salvezza Cosa bisogna fare per meritare la felicità? Può l’uomo fare un atto di puro bene, di gratuità? Come fare per e...